FOTOGRAFARE SE STESSI COME STRUMENTO DI CURA – FOTOGRAFIA IN PSICOTERAPIA

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Fotografia in psicoterapia: Quando le parole non bastano per descrivere un vissuto o un’emozione è spesso necessario ricorrere a strumenti complementari che aiutino la cura psicoterapeutica del paziente. Uno dei mezzi più usati oggi è la fotografia, un medium artistico potente dal punto di vista emotivo e comunicativo, che si è evoluto negli ultimi decenni come tecnica non solo in arte-terapia (Cosden e Reynolds, 1982), ma anche in orientamenti psicoterapeutici di diverso indirizzo (Weiser, 1993) quale gestaltico, sistemico e cognitivo-comportamentale (Fassone et al., 2003).

La forza catalizzatrice dell’immagine fotografica non è dovuta tanto alla sua validità artistica che anzi risulta essere irrilevante per il suo utilizzo come strumento terapeutico, ma è data dalla sua efficacia di rievocare il simbolico personale del paziente, di aiutarlo a far riemergere emozioni e vissuti (Weiser, 2010). Oggi diversi studi mostrano la validità del medium fotografico nel percorso di cura di pazienti affetti da disturbi alimentari (Wessells Jr.,1985), disturbi ossessivo-compulsivi (Mancini, 2006), depressione e stati ansiosi (Seifert, 2014), in interventi sociali (DeCoster e Dickerson, 2014), di formazione (Hogan, 1998) e di empowerment (Levin et al., 2007). Ma in che modo oggi viene utilizzata la fotografia in psicoterapia?

La storia dell’utilizzo della fotografia in ambito psichiatrico

Questa forma di comunicazione è in realtà presente da più di un secolo nel campo scientifico e psichiatrico, nel corso del quale ha permesso di rivoluzionare il modo di concepire la follia (Manzoli, 2004).
L’uso dell’immagine fotografica si è instaurato nel finire dell’800, in un contesto socio-culturale positivista in cui imprescindibile era il rendere fondato ogni forma di sapere (Manzoli, 2004). I primi fotografi ad entrare negli ospedali psichiatrici erano mandati come delegati dei medici, con il compito di “catalogare visivamente” la malattia, di riprodurre con fedeltà e di “riordinare” la follia rinchiusa negli istituti.

L’assunto teorico su cui si fondava l’uso della fotografia in psicoterapia per gli psichiatri ottocenteschi riguardava il poter osservare su lastra fotografica i segni della malattia, di individuare i suoi aspetti fisiognomici così da poterla studiare e riconoscerla sul campo. Questa valenza didattica e classificatoria della fotografia in psicoterapia venne persa alla fine del secolo, quando i fotografi indirizzati da spinte sociali, decisero di usare il loro strumento per celebrare e non etichettare il disordine e i vissuti degli internati (D’Alessandro, 1969; Pirella, 1981; Cerati e Berengo, 1998; Szto, 2008).

 

 

È in questi anni che il Dr. Hugh Welch Diamond, padre della fotografia psichiatrica, iniziò ad usare questo strumento come mezzo di cura e testimonianza del progresso delle sue pazienti (Burrows e Schumacher, 1990). Diamond, fotoamatore e psichiatra, direttore del Manicomio Femminile di Surrey, riconobbe il potenziale ruolo facilitatore proprio della fotografia nel processo di cura dei pazienti. Nella relazione “Sull’Applicazione della Fotografia nella Fisiognomica e nei Fenomeni Mentali della Follia”, presentata nel 1856 al Salone di Medicina della Royal Society di Londra, Diamond riportò alcuni casi in cui la fotografia contribuì nell’esito positivo del trattamento di cura ricevuto dalle pazienti presso il suo istituto. Esempi furono il caso di una giovane madre affetta da “mania puerperale”, sindrome oggi assimilabile alla depressione post-partum, e di una donna che pensava di essere una regina.

Queste donne vennero fotografate nel corso del trattamento in modo da permettere loro di vedere in modo oggettivo la trasformazione del proprio aspetto, rendendole così più consapevoli. Secondo Diamond, osservare la propria immagine rafforzò l’efficacia della cura delle giovani donne. La sua duplice vocazione di psichiatra e fotoamatore ha reso possibile la prima testimonianza del potere terapeutico di un medium comunicativo, realizzando quello che oggi possiamo definire il primo progetto di foto-terapia, in cui il paziente psichiatrico è considerato non più solo come un paziente, ma come un individuo in grado d’interagire con la propria immagine fotografica (Gilman, 1976).

La fotografia in psicoterapia nei nostri tempi

Nei tempi più recenti, la foto-terapia è uscita dall’ambito puramente psichiatrico ed è diventata una pratica diffusa in campo psicoterapeutico. A sistematizzare le tecniche da mettere in atto in un processo di cura è stata la psicologa e arte-terapeuta Judy Weiser (1993), la quale definisce la foto-terapia come una tecnica di counselling in cui il terapista interagisce con il paziente attraverso l’immagine per far emergere vissuti, ricordi e pensieri. Una fotografia, intesa come medium comunicativo privo di valenza artistica, ha il potere catalizzatore di suscitare emozioni e di far proiettare su di sé un significato che per il paziente è spesso arduo spiegare e riconoscere a parole (Saettoni, 2011).

Che sia una seduta individuale o di gruppo, un intervento terapeutico o puramente formativo, l’immagine fotografica è uno stimolo di partenza per una naturale conversazione laddove in particolare la comunicazione verbale non è sufficientemente efficace (Weiser, 2010). La potenza di tale strumento sta nella sua capacità di fermare il tempo e di impregnarsi emotivamente dei vissuti del paziente. Una fotografia non è solo una stampa, ma racchiude un’immagine che, per chi l’osserva, può prendere vita potentemente. In una fotografia , è possibile rivivere il passato riflettere sul presente e immaginarsi il proprio futuro e, se il paziente è guidato correttamente, svelerà il proprio sistema di valori, i giudizi e le aspettative verso di sé e il mondo, narrando le proprie emozioni sulla base dei suoi scatti e delle immagini da lui scelte (Weiser, 2010).

 

 

 

Caso particolare è quando un paziente/una persona posa per delle foto o quando costruisce un autoritratto in cui cerca di rappresentare un’immagine che ha nella propria mente, di mostrare la propria identità e i propri stati d’animo. Nell’autoritratto, infatti, la persona ha il pieno controllo su ogni aspetto dello scatto: ciò che vuole mostrare, come costruirlo, dove e quando eseguire la fotografia (Weiser, 2013). Attraverso questa tecnica, la persona esplora se stessa senza interferenze esterne, nessuno che osserva, che giudica o che controlla i suoi risultati. In questo modo, diventa possibile esplorare il proprio corpo e la propria interiorità, confrontarsi con le proprie identità e i vissuti emotivi, e, all’interno di un percorso terapeutico, discutere di tematiche quali l’accettazione e l’autostima e riconoscere le emozioni più recondite, spesso eluse consapevolmente dal paziente.

Il potere terapeutico della fotografia in psicoterapia

Data la potenza del medium fotografico, non sorprende come persone comuni, fotoamatori e fotografi professionisti abbiano esplorato se stessi costruendo lavori personali di grande impatto emotivo e sbalorditivi dal punto di vista psicologico.
La filosofa Cristina Nùñez da anni diffonde la sua esperienza nell’autoritratto, inteso come strumento catartico per esprimere i propri conflitti interiori e per promuovere un processo di creatività liberatoria, resiliente e funzionale. Lei per prima ha sperimentato dolore e sofferenza, derivate da un passato dedito alla droga, alla prostituzione e a sentimenti di odio, vergogna e gelosia. Ha iniziato ad autoritrarsi come modo per osservarsi e come segno di indipendenza:

Mi sono resa conto che mi faceva bene. Perché il cuore del mio lavoro è trasformare le cose brutte, la sofferenza, la droga, la prostituzione in una risorsa

Alla fotografa Christian Hopkins venne diagnosticata la depressione all’età di sedici anni. Attraverso la macchina fotografica ha deciso di rielaborare la sua esperienza emotiva, di immortalare il suo stato d’animo. L’uso della fotografia in psicoterapia è stato l’unico modo per accettare e controllare i pensieri depressivi che percuotevano incessantemente la sua mente. Con le immagini ha ricostruito il suo dolore creando un lavoro personale usato oggi come risorsa educativa rivolta a coloro che vivono la sua stessa malattia e a chi non comprende appieno il suo male.
Altro esempio di catarsi personale è il lavoro “Psychological self-portrait” di Deedra Baker che ha messo in scena una lotta metaforica contro il proprio sé depresso, immortalando la sua anima travagliata e sofferente in un ambiente sterile e freddo.

La fotografia in psicoterapia, e l’autoritratto in questo caso specifico, è quindi uno strumento complementare che può risultare estremamente utile nella cura terapeutica del disagio psicologico in quanto permette al paziente di conoscere e di confrontarsi profondamente con la propria immagine interiore ed esteriore; l’immagine fotografica si rivela essere uno strumento utile per guidare il paziente verso l’accettazione di situazioni difficili e sentimenti spesso insostenibili, laddove è necessario consolidare un’alleanza terapeutica che va oltre la comunicazione verbale.

 

Fonte: www.stateofmind.it

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