La fotografia e il suo potere terapeutico

Sharing is caring!

Ognuno di noi è affascinato dalle fotografie.

“Sono un’attrattiva universale: ma perché ci piace così tanto guardarle? Scattarle? E conservarle con cura come fossero dei tesori?”

Provate a pensare cosa succede appena scattate una foto o subito dopo essere stati immortalati da qualcun altro: c’è chi con eccitazione e curiosità corre subito a vedere il risultato; c’è chi non è interessato perché tanto sa già che “è venuto male”. Quelli più narcisisti commenteranno maliziosamente la loro bruttezza con l’intento di suscitare negli altri risposte di approvazione ed elogio; mentre quelli più timidi ed inibiti lanciano uno sguardo fugace all’istantanea implorando la cancellazione immediata; i bambini invece saranno quelli più felici di rivedersi, poiché il loro riflesso è collegato alla conferma di loro stessi e della propria identità.

Le reazioni di ognuno di noi sono soggettive e sono collegate con l’immagine mentale interna che abbiamo di noi stessi: essa riguarda sia il modo in cui ci vediamo ma anche il modo in cui vogliamo essere visti dagli altri.

 

Fotografia articolo

 

Cerchiamo di capire meglio come funziona. La creazione della nostra immagine mentale passa attraverso l’esperienza che facciamo quotidianamente attraverso il nostro corpo e attraverso i feed-back nella relazione con le altre persone: considerando che il volto è l’unica parte del corpo che non possiamo vedere direttamente con i nostri occhi, impariamo ad esprimere i nostri sentimenti ripetendo (o immaginando di ripetere) quell’espressione che in situazioni analoghe abbiamo visto sul volto di altri.

Ma le fotografie non hanno solamente a che fare con l’immagine di noi stessi, sono un potente mezzo simbolico che ci stimola a riflettere e che stimola le nostre emozioni: ci possono confortare o ferire, divertire o spaventare, disgustare o attrarre.

Avete mai provato a sfogliare i vostri album di famiglia? Quante cose che non ricordavate più emergono insieme alle emozioni del momento, quanti piccoli particolari, passati inosservati per tanto tempo, colpiscono il vostro sguardo suscitando riflessioni, consapevolezze ed emozioni. Per questi motivi la fotografia viene vista come un potente mezzo espressivo, sia come linguaggio simbolico per esprimere ciò che non si può dire a parole, sia come stimolatore di emozioni e comportamenti di cui spesso non siamo consapevoli.

Il primo ad aver colto la valenza terapeutica della fotografia nel campo della salute mentale è stato Hugh Diamond (1856), fotografo amatore e psichiatra nel manicomio Surrey County Lunatic Asylum: utilizzando dapprima le fotografie dei suoi pazienti come mezzo diagnostico per l’identificazione dei diversi tipi di malattia mentale, si accorse che avevano un potere terapeutico positivo quando venivano mostrate loro: essi apparivano più consapevoli della loro immagine corporea e quindi della loro identità e iniziavano a prestare più attenzione alla loro apparenza poiché tutte le volte che vedevano una fotografia in cui stavano bene, aumentava la loro autostima.

E’ stato solamente negli anni Settanta del Novecento che è avvenuto il riconoscimento ufficiale del potere terapeutico della fotografia grazie all’articolo di Judy Weiser (1975) sulla “Foto-Terapia”, ovvero sull’utilizzo della fotografia all’interno del processo psicoterapeutico come mezzo per esplorare se stessi e fare emergere contenuti non verbali, soprattutto con quei pazienti che avevano difficoltà a far emergere la loro parte emotiva strettamente collegata a vissuti del passato di cui non ne avevano consapevolezza.

Judy Waiser, psicoterapeuta e fotografa, inizia ad utilizzare le sue fotografie come strumento proiettivo dopo aver notato che stimolavano nei suoi pazienti sensazioni e ricordi diversi; successivamente utilizza gli album di famiglia dei pazienti al fine di stimolare la riflessione, la discussione e l’analisi; ed infine inizia a chiedere ai suoi pazienti di fare delle fotografie che verranno poi commentate insieme ed usate come punto di partenza per il processo terapeutico.

Dalla sua esperienza in ambito clinico, la Waiser introduce cinque tecniche di Foto-Terapia, le “PhotoTherapy Tecniques” (si distinguono in base al diverso rapporto che vi è tra il soggetto e la foto stessa: foto scattate dal soggetto, foto che includono il soggetto scattate da altre persone, autoritratti, album di famiglia e il photoprojective), e crea una distinzione tra la Fotografia Terapeutica e la Foto-Terapia.

La Foto-Terapia è una pratica terapeutica in cui vengono usate le foto personali, gli album di famiglia, le foto scattate da altri come elemento stimolante per approfondire la comprensione e migliorare le sedute terapeutiche condotte da professionisti specializzati (psicologi psicoterapeuti) e formati in tali tecniche, in un modo che non sarebbe possibile usando solamente le parole. Nella Foto-Terapia il terapeuta assegna dei compiti fotografici al paziente per poi aiutarlo nella lettura e nella comprensione dei suoi scatti all’interno del processo terapeutico.

Per Fotografia Terapeutica invece s’intende quel campo più vasto in cui determinate tecniche fotografiche vengono usate al di fuori di un processo terapeutico e in assenza di uno psicoterapeuta, allo scopo di aumentare il livello di auto-conoscenza, incrementare la propria consapevolezza, per risolvere piccoli conflitti non di tipo patologico, per attivare un cambiamento positivo o per migliorare le relazioni interpersonali. La Fotografia Terapeutica può essere quindi usata anche in contesti didattici, formativi, educativi, ma sempre con finalità non cliniche e senza la presenza di uno psicoterapeuta.

fotografia-

 

 

Anna Fabroni – Costole.

Un esempio di Fotografia Terapeutica, è la produzione fotografica di Anna Fabroni, “Costole” (2004), un’ex modella che grazie alla fotografia è riuscita a sconfiggere l’anoressia e a costruirsi una nuova identità. Tutto iniziò con l’incontro di un fotografo, Francesco Morgillo, che dopo un servizio fotografico che ritraeva Anna come modella, le dette in mano la macchina fotografica e le chiese di scattare delle foto da sola. Anna di quel momento racconta questo: “utilizzai la macchina quasi fosse un pezzo di ricerca al femminile, e il risultato fu sorprendente, mi sentivo più bella, come se finalmente non dovessi preoccuparmi del giudizio degli altri, come se finalmente potessi ritrarre me stessa e non come gli altri mi avrebbero voluta, o mi rappresentavano nei servizi di moda”.

In una intervista Anna spiega che “dopo aver guardato i risultati e a come fosse il mio corpo nella realtà, rimasi stupefatta, forse avrei potuto riacquistare un po’ di peso?”.Da quel momento Anna non si è più separata dalla sua macchina fotografica, attraverso di essa riusciva a guardarsi dall’esterno, permettendosi di essere più tollerante nei confronti di quella donna così fragile e piena di difetti che nonostante tutto meritava di essere amata. Grazie alla fotografia è riuscita a cogliere anche quelle emozioni che il suo corpo esprimeva attraverso gli scatti fotografici ma che facevano da filtro quando si guardava allo specchio.

Il progetto “Costole” è stato per lei un modo per curare le sue insicurezze, e a proposito di questo Anna scrive “sono guarita dall’anoressia, o comunque ho ripreso a mangiare, perché nelle foto di “Costole” ho visto le mie ossa, quando nello specchio vedevo solo grasso. Se servisse anche soltanto a correggere le distorsioni dei miei occhi, questo renderebbe l’autoritratto una forma di auroterapia molto importante”.

Fonte:www.psicologiaok.com

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *