Psicoterapia per i giovani: l’aiuto del cinema Fantasy

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Come il cinema fantasy può venirci in aiuto nella costruzione di una solida alleanza di  psicoterapia

Nella psicoterapia per nerd si confina con un’altra dimensione: solo spingendosi oltre, si potrà costruire un linguaggio comune e poi l’alleanza terapeutica.

Narrativa e filmografia fantasy, consentono notevoli appigli per la formazione di metafore, utili alla creazione di una buona alleanza terapeutica nella psicoterapia con giovani e adolescenti, categoria talvolta di più difficile accessibilità.

psico

Wikipedia ci dice che, stereotipicamente, al mondo dei nerd appartengono quei ragazzi tendenzialmente solitari, poco portati alla socialità e al conformismo; solitamente molto intelligenti, per i nerd attività come informatica, tecnologia, fumetti, videogiochi, letteratura e filmografia fantasy, non hanno segreti. Generalmente tali individui vengono tacciati di immaturità cronica, proprio a causa della fonte delle loro passioni, considerate con accento dispregiativo, roba da bambini.

Schivi e moderni Peter Pan, vagano così furtivi, scambiandosi manuali chilometrici sul prossimo gioco di ruolo, di nascosto dal capoufficio guardingo, consapevoli del misfatto agli occhi dell’adulto. Scorrendo i vari siti e blog dedicati al mondo nerd e confluenti, si scopre che questo è, appunto, solo uno stereotipo: le risorse presenti in tale universo, offrono infatti un ventaglio tanto variegato quanto ricco di metafore, utilizzabili a scopo sia psicoeducativo che terapeutico.

La stereotipia legata ai nerd, può d’altra parte profeticamente prender vita, in alcuni giovani predisposti ad una vulnerabilità di fondo, protesi ad esempio verso un rassicurante ritiro sociale o verso un subdolo mondo ossessivo. In questo caso l’universo nerd offrirà un vasto, quanto rassicurante conforto, pieno di speranze credibili, miti giusti, raminghi impavidi, demoni da poter sconfiggere e poteri da scoprire per affrontare il tutto: chi mai potrebbe rinunciare? Il pericolo insito nel fattore di mantenimento è in vista, proprio perché il paese dei balocchi è dietro l’angolo e la tana del Bianconiglio è così invitantemente confortevole.

La costruzione di una relazione con gli adolescenti, specialmente se dotati di una personalità timida e riservata è già di per sé complessa (Isola L. Mancini F 2003). Quando si ha a che fare con una psicoterapia per nerd, talvolta, è come si fosse in presenza di un muro confinante con un’altra dimensione: solo spingendosi oltre, si potrà costruire prima un linguaggio comune e poi una solida alleanza terapeutica.

 

Psicoterapia per nerd: un caso clinico

Andrea è un sedicenne timido e asociale, affetto da un disturbo ossessivo compulsivo severo, con due precedenti tentativi di terapie alle spalle. La sua vita ruota attorno a videogiochi, filmografia fantasy-horror e mondo degli youtubers. Il centro assoluto delle sue passioni è Halo, un videogioco fantasy-fantascientifico legato ad una community ricchissima di blog, fans, romanzi, serie animate e fumetti di complemento.

Adotto spesso in terapia la metafora del parassita, chiedendo al paziente di immaginare il peggior parassita che gli venga in mente, quello che gli suscita più disgusto e suggerendogli poi di considerarlo come origine delle ‘voci’ disturbanti. Notoriamente i parassiti succhiano energia dal proprio ospite: più è forte l’ospite più sono forti loro. Tuttavia per quanto il parassita possa essere mimetizzato con essi, è qualcosa di diverso. Utilizzo questa metafora per favorire, ovviamente, la differenziazione (Lakatos A. Reinecker H. 2005)

 

 

Ma in questo caso specifico di psicoterapia per nerd è ad un tipo di parassita particolare cui mi interessa far riferimento, un parassita mellifluo, imbonitore e sagace. Il Gravemind in Halo ha una mente suprema, antichissima, molto potente avendo assorbito milioni di anime, con lunghissimi tentacoli e migliaia di possibilità di contaminare altri corpi inermi. Con voce subdola, languida e in rima, carezza l’orgoglio della vittima ignara sino alla capitolazione finale.

Il disturbo ossessivo compulsivo aveva avuto un esordio molto precoce nella vita di Andrea, influenzando così tutta la sua preadolescenza. Nonostante la sua quotidianità fosse seriamente danneggiata dagli estenuanti rituali, egli era convinto di riuscire a sfidarsi ogni giorno, e di fare continuamente passi avanti sulla strada della guarigione. Ciò che in realtà accadeva era che ogni millimetro che il parassita gli concedeva, ai suoi occhi appariva un chilometro, mentre dall’esterno erano ben evidenti evitamenti costanti e comportamenti protettivi sempre più variegati.

Il Gravemind lo teneva abilmente in ostaggio, un equilibrio perfetto e diabolico, che soprattutto teneva lontano il terapeuta: era in grado di sfidarsi, non aveva bisogno di aiuto. Un modulo, questo, che si ripeteva da tempo impedendogli di instaurare una relazione terapeutica efficace, e finendo per alimentare sconforto e sfiducia verso la terapia: esattamente l’obiettivo difensivo del subdolo parassita.

Ogni sforzo di Andrea era teso a difendere l’integrità dell’aura di felicità della sua camera. Essa conteneva quanto per lui di più caro e prezioso: se qualcosa di esterno l’avesse violata, una patina nerastra avrebbe densamente ricoperto ogni superficie e la serenità sarebbe scomparsa dal suo mondo. Le concessioni del Gravemind, lo tenevano impigliato in una tela di Penelope fatta di sforzi sovrumani, che in barba alla perenne promessa non lo portavano mai alla meta.

Validando e accogliendo compassionevolmente le sfide di Andrea, in questa ‘psicoterapia per nerd‘ spostai l’ago della bussola su ciò che per lui era più importante. Parlai dell’aura positiva della camera facendo riferimento ai colori pastello (King S. 1994); utilizzai gli horcrux (Rowling J.K 2005) in senso positivo per mostrargli come gli oggetti della camera appartenessero e fossero parte di lui: la sua esperienza con loro li aveva resi tali e così come in quelli di Voldemort, parte della sua anima era in essi racchiusa facendoli brillare di luce propria e inattaccabile. La sua camera assunse le forme dell’Arca, l’unica installazione al sicuro, in Halo, dal Gravemind benché temporaneamente.

In pochissimo tempo tra me e Andrea si creò un linguaggio comune, fatto di moltissime metafore narrative e filmografiche, con Halo e il Gravemind al centro: il Gravemind tentò più volte di opporre resistenza convincendo Andrea che poteva farcela da solo, e invariabilmente accadeva che uscisse fuori una nuova sfida.

Io utilizzavo sempre un atteggiamento compassionevolmente neutro, orientato su ciò che più contava: non esiste il giusto o sbagliato, ma ciò che conviene o meno per arrivare dove vuoi. Andrea si fidò presto della nostra alleanza terapeutica e, cosa più importante, riconobbe il Gravemind per ciò che era e lo nominò. Riconobbe, inoltre, la sua importanza nel suggerirgli le sfide, e imparò a diffidare da esse, creandosene di proprie in terapia con il mio aiuto. Aveva compreso chi era il vero nemico. E lo aveva compreso dal suo punto di vista.

 

 

 

L’importanza delle metafore

In molti casi le metafore non hanno dei soggetti così specifici, ma assumono contorni più generali, soprattutto se si riferiscono a concetti astratti ed emozioni. Nella mia pratica clinica trovo spesso che emozioni scomode come la rabbia, ben si prestano ad esser rappresentate con metafore di tipo epico. Immagina di essere un guerriero assetato di sangue e vendetta, armato di tutto punto, la cotta di maglia brillante e l’armatura solida; spada alla mano ti dirigi mento a terra verso il campo di battaglia indicato dal tuo secondo: vendicherai finalmente i tuoi padri periti ingiustamente nel tempo andato, quale onta per la tua casata!

Ma una volta giunto, scopri solo una terra riarsa dal sole cocente, qua e là puntellata dal biancore opaco di riconoscibili ossa; lance ancora affilate giacciono a terra. Non trovi un solo nemico ancora in vita, una sola spada da combattere e nemmeno una goccia di sangue da versare. Cosa puoi fare a questo punto? Immagina di essere un guerriero assetato di sangue e vendetta, armato di tutto punto, la cotta di maglia brillante e l’armatura solida; spada alla mano ti dirigi mento a terra, verso il campo utilizzato come base dall’esercito nemico: vendicherai le razzie scoperte nel tuo villaggio al ritorno dalla caccia. Ma una volta giunto scopri che il campo è ormai deserto: l’esercito deve essersi mosso con un paio di giorni di anticipo su di te. A questo punto ti aspetta una scelta. Non hai viveri né acqua per il viaggio, la tua armatura è pesante e il sole cocente. Cosa puoi fare?

Queste due metafore rappresentano due versioni leggermente diverse della rabbia: nel primo caso ci troviamo di fronte ad una rabbia sorda, una seconda fase del lutto non elaborata nel tempo (Kübler-Ross E. 1969), da individuare magari in depressioni croniche. Essa pone l’accento su frustrazione e disperazione: l’obiettivo è quello di rendere ben visibile la condizione di immobilità e inutilità dell’azione ricorrente, proprio attraverso la connessione con la realtà del momento presente. Nel secondo caso, c’è una situazione di iperinvestimento comune in molti disturbi, e si fa riferimento direttamente all’agenda del controllo dell’ACT e alla disperazione creativa (Harris R. 2011).

Attraverso queste rappresentazioni i pazienti riescono ad assumere una prospettiva combattiva, molto utile e motivante in questa categoria di persone; esse riescono così ad utilizzare un linguaggio che comunemente associano alla protezione e all’evitamento della sofferenza, proprio come strumento per accettarla ed imparare non considerarla più un demone assetato di sangue.

Fonte: www.stateofmind.it

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